Il Giovedì Santo, che quest’anno cade il 17 aprile, è una di quelle giornate in cui il tempo sembra fermarsi e il cuore della liturgia cattolica comincia a battere più forte. Non è una semplice data del calendario, è l’inizio del Triduo Pasquale, la soglia di quei tre giorni santi che conducono alla risurrezione di Cristo. Ma questo giorno, così carico di simboli e memoria, non si può raccontare solo con la cronaca liturgica: bisogna entrarci dentro, lasciarsi portare, come se si potesse davvero essere lì, quella sera, in quel cenacolo dove Gesù, con gesti semplici e solenni, ha cambiato per sempre la storia dell’umanità.
Al centro del Giovedì Santo c’è l’Ultima Cena, certo. È lì che tutto accade: il pane spezzato, il vino versato, le parole nuove che risuonano per la prima volta eppure sembrano eterne. “Questo è il mio corpo”, dice Gesù. Non “è come”, non “simbolizza”, ma è. E da quel momento, ogni volta che si celebra la Messa, si rivive quel momento unico, si entra di nuovo nel Cenacolo, e il sacrificio di Cristo diventa presente, vivo, reale. In quel gesto di spezzare il pane e condividerlo con i suoi, Gesù si consegna interamente, anticipa il dono della croce, si fa cibo per i suoi, per noi. È la nascita dell’Eucaristia, centro e culmine della vita cristiana. E insieme, è la nascita del sacerdozio, perché proprio lì, a quella tavola, Gesù affida agli apostoli — e quindi a tutta la Chiesa — il compito di “fare questo in memoria di me”.
Ma il Giovedì Santo non è solo memoria e celebrazione: è anche un giorno di profonda umanità. C’è quel gesto disarmante, che spiazza ancora oggi: la lavanda dei piedi. Gesù, il Maestro, si alza da tavola, si cinge di un asciugamano, prende una brocca d’acqua e si inginocchia davanti ai suoi discepoli. Li guarda negli occhi e lava loro i piedi. Non era un gesto simbolico: era il compito degli schiavi. Eppure, Lui lo compie con amore e umiltà, insegnando che chi vuole essere grande deve farsi servo. Lì c’è il Vangelo vissuto. Nessuna predica, nessun discorso: solo acqua, piedi impolverati, mani che accarezzano. E Pietro che, come spesso accade, non capisce subito, si ribella, poi si arrende. E noi? Siamo disposti a lasciarci lavare i piedi, cioè a lasciarci amare fino in fondo, anche nei nostri punti più sporchi, più nascosti, quelli che magari noi stessi facciamo fatica ad accettare?
Il Giovedì Santo è anche un giorno che termina nel silenzio. Dopo la Messa in Coena Domini, il Santissimo Sacramento viene portato all’Altare della Reposizione. La chiesa si svuota, l’altare viene spogliato, le luci si abbassano. Inizia un tempo diverso, una notte di veglia. È il Getsemani. Lì, davanti al tabernacolo ornato di fiori e luce soffusa, i fedeli si raccolgono per “vegliare un’ora con Lui”. È un tempo prezioso, intenso, fatto di silenzio, di preghiera, di domande che salgono dal cuore. Gesù è lì, solo, in agonia, e ci chiede di non lasciarlo. Non servono parole. Basta esserci. Rimanere. Per una volta, non scappare.
E c’è un altro aspetto, spesso dimenticato ma profondo: il Giovedì Santo è anche il giorno in cui, al mattino, in ogni diocesi, si celebra la Messa Crismale, presieduta dal vescovo con tutto il clero. È il momento in cui si consacrano gli oli santi — quello degli infermi, dei catecumeni e soprattutto il Crisma — che verranno poi usati durante l’anno per i sacramenti. È anche il giorno in cui i sacerdoti rinnovano le promesse fatte nel giorno della loro ordinazione. È un richiamo forte all’identità, alla missione, al dono totale della propria vita.
Il Giovedì Santo, quindi, è un giorno che unisce il sacro e il quotidiano, il mistero e il gesto concreto, la solennità e la tenerezza. È un giorno che ci invita a scendere dal piedistallo, a metterci in ginocchio, a servire, a pregare, a lasciarci amare. È un giorno che non va solo ricordato, ma vissuto, lentamente, interiormente. Non basta assistere alla Messa: bisogna lasciarsi attraversare da quello che accade. Lasciarsi lavare i piedi, nutrire dal Pane, coinvolgere nella veglia. Solo così il Venerdì Santo e la Pasqua avranno davvero un senso.
Perché, in fondo, tutto comincia da qui: da una tavola, da un gesto d’amore, da un Dio che si fa pane e si inginocchia davanti a noi. E ci dice, senza parole, che non c’è amore più grande di questo.