San Giuseppe Moscati “il medico dei poveri”

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Medico pioniere della moderna visione olistica dell’uomo, si prodigò nel curare allo stesso tempo il corpo e l’anima dei suoi pazienti, prestando la propria opera nella sua “bella Partenope”, Napoli, dove ancora oggi molti accorrono a chiedere aiuto per ogni genere d’infermità psichiche, fisiche e morali.

Settimo di nove figli, nacque a Benevento il 25 luglio 1880 da una ricca famiglia: il padre Francesco era un magistrato e la mamma Rosa una marchesa; visse a Napoli dall’età di quattro anni, dopo una breve permanenza ad Ancona.

A soli 17 anni conseguì la maturità classica e sebbene il padre, il nonno e due suoi fratelli avessero studiato Giurisprudenza, s’iscrisse alla facoltà di Medicina. Probabilmente questa scelta fu influenzata da due situazioni: il fatto che il giovane Giuseppe si soffermava spesso alla finestra di casa sua e guardava l’Ospedale degli Incurabili verso cui il padre gli infondeva una particolare pietà; sia l’incidente occorso al fratello Alberto che in seguito a un trauma cranico dovuto alla caduta da cavallo, iniziò a soffrire di crisi epilettiche. Fu proprio Giuseppe a prendersi cura di lui, sperimentando il dramma della sofferenza umana e il limite della scienza, e nello stesso tempo l’efficacia dei conforti religiosi su un’anima predisposta e ben preparata.

Il 4 agosto 1903 si laureò con il massimo di voti con una tesi sull’urogenesi epatica e dopo 5 mesi vinse con successo il concorso come coadiutore straordinario presso gli Ospedali riuniti di Napoli dove iniziò a lavorare, fino a diventarne primario una decina di anni dopo, vincendo il concorso nella cui commissione d’esame era presente il prof. Cardarelli che affermò “di non aver mai incontrato un giovane simile” e che lo scelse come medico curante.

Si distinse per il suo coraggio in diverse occasioni: durante l’eruzione del Vesuvio dell’8 aprile 1906 portò in salvo i pazienti dell’Ospedale di Torre del Greco, caricandoli sui mezzi di soccorso (il tetto crollò dopo aver sistemato l’ultimo paziente); nel 1911 diede un notevole contributo per limitare l’epidemia di colera in quanto fornì all’Ispettorato della Sanità Pubblica indicazioni sulle necessarie opere di risanamento della città che in parte furono in seguito realizzate.

Giovanissimo ricercatore di talento, vide i risultati delle sue ricerche sulle reazioni chimiche del glicogeno pubblicati in diverse riviste scientifiche e prese parte ad alcuni congressi internazionali.

Insieme all’attività medica portò avanti la docenza all’Università insegnando Chimica fisiologica e anatomo-patologica prima, clinica medica generale poi. La sua abilità nelle autopsie gli meritò la Dirigenza dell’Istituto di anatomia patologia ma per capire la sua profondità spirituale, ci viene un aiuto un anedotto che racconta del giorno in cui convocò i suoi assistenti nella sala delle autopsie per mostrare loro la vittoria della vita sulla morte: aveva infatti posto un crocifisso su una parete e un cartello con la citazione del profeta Osea: “Ero mors tua, o mors” (“O morte, sarò la tua morte”).

Particolarmente dotato come insegnante, si sforzava di accendere la curiosità e la passione nel cuore dei numerosi studenti che seguivano le sue lezioni e lo accompagnavano durante le visite in ospedale per carpire i segreti delle sue straordinarie doti diagnostiche: questo suscitò l’invidia di alcuni colleghi e si trovò a vivere momenti di grande scoraggiamento e tristezza.

Durante la prima Guerra Mondiale la sua domanda come volontario fu respinta perché il suo operato a Napoli era troppo importante, ma ottenne la direzione dei reparti militari dell’Ospedale, che gli consentì di curare circa 3000 feriti di ritorno dal fronte e soprattutto la possibilità di confortarli spiritualmente.

Dall’animo sincero, con una fede salda e che sapeva coniugare con la scienza:

«La scienza ci promette il benessere e tutt’al più il piacere; la religione e la fede ci danno il balsamo della consolazione e la vera felicità, che è una cosa sola con la moralità e col senso del dovere»,

attingeva forza dall’eucaristia quotidiana, dalla recita del santo rosario e dell’Angelus che invitava i presenti in ospedale a pregare fermandosi al rintocco del mezzogiorno.

Moscati rimase nel ricordo di chi lo conobbe come una personalità carismatica e piena di carità profonda. La sua predilezione sarà per i poveri, egli stesso conduceva una vita sobria, che ogni giorno prima di recarsi in Ospedale visitava gratuitamente recandosi a piedi o con i mezzi pubblici, anche se avrebbe potuto avere una carrozza o un’automobile, nei quartieri spagnoli o ai quali portava medicine a sue spese, e che spesso bussavano alla porta del suo studio ma si vedevano restituire il compenso dovuto.

Il gesuita Padre Antonio de Pergola fu testimone di un episodio in cui, viaggiando in treno, era stato pregato da alcuni ferrovieri di recarsi a visitare un loro collega infermo per il quale avevano fatto una colletta per pagare il medico.

Dopo la visita Moscati con estrema naturalezza consegnò loro 30 lire dicendo:

«Poiché voi, sottraendo parte del vostro duro lavoro, siete venuti in aiuto del vostro amico infermo, io mi associo al vostro senso umanitario e contribuisco alla sottoscrizione con la mia quota, onde l’infermo possa avere, con la somma raccolta, i mezzi necessari per curare la malattia».

Per dedicarsi maggiormente ai degenti dell’ospedale e ai poveri, Moscati rinunciò nel 1917 all’insegnamento e nel 1922 fu nominato primario dell’Ospedale degli Incurabili. Il suo sguardo verso gli ammalati fu sempre quello di chi vide in loro:

le figure di Gesù Cristo, anime immortali, divine, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi”

 e in questo senso andava ripetendo ai suoi colleghi:

“il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità”.

Giuseppe Moscati muore il 12 aprile 1927, martedì santo, a soli 46 anni, a causa di un improvviso malore che lo coglie mentre sta seduto alla poltrona di casa sua.

La tragica notizia che “è morto il medico santo” si diffonde rapidamente in tutta Napoli. Viene sepolto nel Cimitero di Poggioreale e poi traslato il 16 novembre 1930 nella Chiesa del Gesù Nuovo, dove si trova tutt’ora.

La sua memoria liturgica ricorre il giorno della nascita al cielo ma dato che questa data può cadere – come quest’anno – nei giorni tra la fine della Quaresima e l’Ottava di Pasqua, è stata fissata al giorno della traslazione.

Beatificato da papaPaolo VI nell’anno giubilare 1975 con queste

“Chi è colui che viene proposto oggi all’imitazione e alla venerazione di tutti?

E’ un laico, che ha fatto della sua vita una missione percorsa con autenticità evangelica…

E’ un Medico, che ha fatto della professione una palestra di apostolato, una missione di carità…

E’ un Professore d’università, che ha lasciato tra i suoi alunni una scia di profonda ammirazione…

E’ uno Scienziato d’alta scuola, noto per i suoi contributi scientifici di livello internazionale… La sua esistenza è tutta qui…

Proclamato santo da Giovanni Paolo nel 1987, al termine del sinodo dei vescovi “sulla Vocazione e Missione dei laici nella Chiesa”.

Autore: Vera De Dominicis

Nata ad Ancona, sposata e mamma di tre figli. Laurea di Magistero presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose "Lumen Gentium" di Ancona, insegna Religione Cattolica alle superiori. Catechista, segue il suo percorso di fede nel Cammino Neocatecumenale, assieme al marito.